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L'evoluzione di Prà Ellera

 

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COMUNITÀ

La Comunità Terapeutica C.T.R. “Residenza Protetta Prà Ellera” è immersa nel verde di una zona collinare nell'entroterra ligure a 2,8 km da Cairo Montenotte, in provincia di Savona, ed è operativa dal 1990.
La struttura si suddivide in 3 moduli abitativi, ognuno formato da 20 posti, accoglie ospiti da tutte le regioni italiane sia privati, che provenienti dal Servizio Sanitario Nazionale, che presentano patologie psichiatriche di differente tipologia e gravità con particolare attenzione, dedicata fino dal 1994, ai pazienti autori di reato soggetti a misure di sicurezza o a provvedimenti di restrizione della libertà personale, inviati direttamente dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) o dal carcere. La comunità partendo da queste esperienze, precoci nel panorama delle strutture residenziali intermedie italiane, si è specializzata nel trattamento istituzionale del “paziente difficile”.
Le singole equipe terapeutiche di modulo, integrate con operatori a progetto e oss, hanno un’impostazione di orientamento prevalentemente psicodinamico, attento alle dinamiche controtransferali del singolo e del gruppo, come alle dinamiche presenti nel campo istituzionale nel suo complesso: sono formate da sette educatori professionali, due infermieri, da uno psicologo e da un medico psichiatra, mentre la copertura medica è garantita sulle 24 ore.
La struttura offre anche, per una fase avanzata del progetto terapeutico comunitario, appartamenti privati, nel centro della vicina città di Cairo Montenotte, capaci di accogliere sia i propri ospiti, che pazienti provenienti direttamente dal Servizio Sanitario Nazionale e se autori di reato, dai circuiti penali (O.P.G.).
Le differenti figure professionali operano in modo sinergico sul piano clinico e riabilitativo, con lo scopo di individuare e sviluppare progetti terapeutici personalizzati (PT) per ogni ospite. I pazienti sono costantemente monitorati e discussi dallo psichiatra con i due operatori di riferimento individuati per ogni ospite e in stretta collaborazione con i servizi territoriali invianti, per favorire il percorso comunitario e il successivo reinserimento nella società.
Il processo terapeutico-riabilitativo, si affida sia ai principi generali della “milieu-therapy”, cioè la più attuale versione della socio-terapia di matrice francese e inglese, secondo il pensiero di Racamier, Winnicott, Bion, Main e Maxwel-Jones che al “modello di cura” ormai consolidatosi come ‘standard’ da alcuni anni anche in Italia, v. Ferruta, Foresti, Vigorelli, e si avvale delle linee guida più aggiornate del modello bio-psico-sociale, riguardo a trattamento psicofarmacologico, ai colloqui clinici, alle terapie di sostegno e alla proposta possibile di psicoterapie strutturate individuali e di gruppo.

Elemento qualificante e tipico delle sue prassi e nella sua proposta di intervento è l’importanza attribuita al rispetto dato all’universo personale “valoriale” e fantasmatico dell’ospite, anche se spesso questo è portatore di gravi patologie relazionali, reduce da numerosi insuccessi e scacchi nei progetti riabilitativi precedenti o portatore di quadri complessi di co-morbilità.

Una particolare attenzione nell'agire terapeutico è dedicata all’analisi dei bisogni, delle motivazioni, al livello reale e attuale di coinvolgimento relazionale con l'ospite. Le modalità organizzative e relazionali, sono organizzate con ampie articolazioni interne (moduli e sottogruppi) e la specifica cultura di lavoro e in sintesi con riunioni:

• periodiche di progetto,
• di modulo-equipe,
• comunitarie e di staff,
• generali con gli ospiti
• occasionali “gruppi crisi” con gruppi particolari di pazienti
• con il “comitato di ospitalità”,
• della “commissione disciplinare”,
• di gruppo-attività e dei vari gruppi espressivi, ecc.

in virtù della grande e flessibile organizzazione interna dei singoli moduli abitativi, si cerca di contenere a vari livelli e modulare adeguatamente tali dinamiche, all’interno di un estensione tollerabile e una cornice di sicurezza per se stessi e per gli altri ospiti.

La comunità ha parametri strutturali e organizzativi di “alta protezione”, uscite programmate e con gruppi di diversa composizione, zone allarmate e video-sorvegliate di notte, una “stanza di osservazione” per gli ospiti che non hanno potuto essere visitati precedentemente nel loro luogo di residenza, e un insieme di strumenti utili a permettere un loro successivo inserimento-assegnazione ad uno dei moduli abitativi.

Quando e se possibile, le dinamiche in qualche modo ‘devianti’ vengono parzialmente accolte fin dall’inizio (come presupposto necessario processo di enactment istituzionale, di ingaggio relazionale e istituzionale) e gradualmente discusse, con una fase inevitabile di iniziale contrattazione individuale e con una successiva e parallela loro negoziazione con il gruppo degli ospiti e con la CT come tutto.

Per esperienza occorre ricercare ostinatamente un lento e progressivo processo di transito/travaso/trasformazione nell’esperienza comunitaria complessiva di queste espressione coattive, dette forme del “negativo”. Questi elementi sono continuamente negoziati e non semplicemente denegati o ‘nascosti’ in prima battuta rispetto all'unico obiettivo del mantenimento di un livello ideale ma illusorio, di una stabile alleanza di lavoro. Tali livelli sono annegati e divisi in una marea di attività organizzate e scandite nella giornata al solo scopo di occultarli ulteriormente, in una logica premiale e pseudo-adattiva, quali atteggiamenti mimetici molto precari e da rafforzare nel tempo.

Quindi si accetta consapevolmente un compromesso provvisorio per realizzare con il 'sintomo' emergente, cercando di condividere transferalmente nel gruppo-equipe il carico di tale attualizzazione di parte nel faticoso mondo interno, confrontandosi poi con il gruppo degli altri ospiti (principio di equità).
In ogni caso, all’atto dell’accettazione e dell’inizio del percorso comunitario viene sottoposto e idealmente sottoscritto da parte del nuovo ospite, il regolamento della comunità (periodicamente ridiscusso nell’assemblea generale) e un suo eventuale specifico “contratto terapeutico”, in modo di sollecitare una responsabilizzazione iniziale rispetto alla convivenza e al proprio percorso comunitario.

 

 

LA PRESA
IN CARICO

 

 

 

 

IL PROGETTO
TERAPEUTICO

 

 

 

 

RIFLESSIONI CLINICHE

 

 

 

 

INSERIMENTO LAVORO

 

 

 

 

IL PAZIENTE
AUTORE DI REATO

 

 


L’ingresso di un paziente in comunità ha il significato di separazione, non solo dai luoghi e dalle persone a lui più familiari, ma soprattutto da una modalità esistenziale che è stata l’unica possibile per proteggersi da una realtà che minaccia di altre più angosciose separazioni.

Non è alleandosi con l’assetto difensivo del soggetto malato che contribuiamo alla sua evoluzione verso un assetto identitario più strutturato, più sano (Ferruta).
Accettare l'ingresso in una comunità ha il significato di un duplice fallimento: non poter porre rimedio con le proprie risorse a una situazione critica e percepire la debolezza del proprio funzionamento psichico, accettarsi malato.

La comunità quindi come luogo intermedio, area transizionale (Winnicott) tra la cura intensiva della crisi e la pura assistenza di una gestione senza speranza della cronicità, un luogo di frontiera connesso al passaggio, alla possibilità di cambiamento.
La comunità nel suo complesso svolge una funzione psicoeducativa offrendo la possibilità di riflettersi in uno specchio poliedrico dove l'immagine di ciascuno viene proiettata e riflessa da diverse angolazioni. La prospettiva è quella di riprendere le fila di un processo di crescita adolescenziale interrotto, di rimpastarlo, di sostenerlo, riabilitando le funzioni che si stavano sviluppando e che, dal momento del break-down si sono via via anchilosate.

Il confronto quotidiano sollecita un processo di individuazione e responsabilizzazione, con l’uscita dal ruolo di malato o di figlio e la rinuncia ai vantaggi secondari della malattia.

FERRUTA: L'offerta di vivere in strutture intermedie ha a che fare con l'esigenza di un periodo di separazione con la famiglia di origine, con l'offerta di un ambiente che permetta l'attivarsi di questa area transizionale, che ha bisogno del contatto con il mondo esterno e insieme di poterlo usare e deformare e distorcere in funzione della propria personalità, in modo da utilizzarlo come sostegno, appagamento, creazione personale.

PERINI: "Ci sono dunque forti tensioni ed angosce che permeano la cultura organizzativa della CT. La tensione principale è forse quella che si crea tra due compiti di pari importanza, quello di accogliere in malato ma allo stesso tempo di farlo crescere. Il paradosso centrale e insieme la sfida della CT è appunto lo sforzo di creare un microcosmo sociale che sia capace di accogliere quella follia che il mondo esterno non è in grado di tollerare, ma che sia al tempo stesso capace di aiutare i suoi membri a rinunciare a una casa accogliente per tornare a vivere nel mondo esterno."

La comunità non è vista solo come luogo di cura ma come ‘agente’ delle cure'. Il cuore della terapia si fonda su una ‘clinica del quotidiano’, in cui ogni momento della giornata diventa un’occasione di apprendimento dall’esperienza.

Questo effetto di contenimento, di supporto emotivo e di pensiero è stato definito da Antonello Correale, la "funzione ecologica del gruppo", volta a stabilire un ambiente propizio e a generare la sensazione di entrare "in un terreno di cultura comune a tutto il gruppo dei curanti, ove contare su rapporti di vicinanza e di sostegno, specie quando compaiano minacce al senso di sicurezza e valutazione di se stesso." (A. Correale, 1996). Su questa base è possibile avviare un percorso evolutivo che si sviluppa attraverso i gesti e i fatti della quotidianità, seguendo il filo che lega ogni avvenimento della vita di gruppo.

Lo spazio vissuto è uno spazio ‘umanizzato’ in cui ci sono confini che ci permettono di sentirci ‘protetti’, al sicuro, e dove ‘l’intimità’ trova il suo posto. E’ nello spazio dell’abitare che l’intimità trova la sua decisiva espressione psicologica e umana, diventando un abitare percorso di affetti (Minkowski, 1971; Borgna,2002).
Indirizzando l’intervento terapeutico allo sviluppo dell’attaccamento al proprio luogo di vita, alla ri-appropriazione e valorizzazione del proprio spazio, si può favorire lo sviluppo dell’autostima e di un senso di identità più stabile. Poter trovare un proprio posto, un luogo in cui potersi fermare per mettere in ordine le proprie cose (sia concrete che emotive) e poi riprendere il proprio cammino di vita (spesso accompagnati da altri) sembra essere un aspetto essenziale per chi, come le persone con gravi disturbi psichiatrici, da anni passano di luogo in luogo (casa, reparti psichiatrici, case di cura, altre comunità) portando con sé l’intollerabilità della propria sofferenza. Per dirla con Zapparoli, si cerca di fornire una ‘residenza emotiva’ alle persone che vengono ospitate.